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Il Molosso

molosso

E’ possibile che il molosso sia apparso per la prima volta in Asia, come l’uomo.
Ed è nel Tibet che gli esperti pongono, a progenitore di tutti i molossi, il gigantesco mastino tibetano, diretto discendente del Canis familiaris, che inaugura l'albero genealogico più robusto fra tutte le razze canine.
Questo cane ha avuto origine nell'altopiano del Tibet, dove ancor oggi vive in due varietà: a pelo lungo, da alta montagna, e a pelo raso, da pianura.
E’ considerato unanimemente il capostipite dei cani da montagna, i molossoidi a pelo lungo: da lui sono sicuramente derivati il San Bernardo, il terranova, il cane dei Pirenei e molti altri.
Introdotto anche in Europa, ha attecchito in Inghilterra, dove viene allevato il tipo a pelo lungo. Qualche fantomatico esemplare a pelo raso è stato visto circolare anche in Italia.
Uno dei suoi primi ammiratori fu Marco Polo; il nostro viaggiatore incontrò questo gigante canino quando visitò il Tibet.
Dal manoscritto magliabechiano detto ottimo (che è la migliore traduzione toscana dall'originale franco-italiano) riportiamo:
« Egli (i Tibetani) hanno grandissimi cani mastini grandi come asini, che sono buoni da pigliare bestie selvatiche». E più avanti: « Ora vi conterò della grande abbondanza di buoni cani ch'ha e lo gran sire. Egli è vero che 'I Gran Cane hae due baroni chiamati Tinuci, cioè a dire quegli che tengono gli cani mastini... E quando il gran sire va alla caccia mena seco l'uno di questi due fratelli con diecimila uomini, e con ben cinquemila cani dall'una parte, e l'altro fratello si è dall'altra coll'altra sua gente e cani... ed io vi dico che, quando il gran signore va co' suoi baroni uccellando, vedesi venire attorno di questi cani cacciando orsi, porci e cavriuoli e cerbi e altre bestie, sì che è bella cosa a vedere ».
E veniamo ai molossoidi a pelo raso: è di quest'ultima varietà che ci occuperemo d'ora innanzi. A questo punto della nostra storia si riscontra una soluzione di continuità che ci costringe a procedere a tentoni e per ipotesi: l'esistenza del molosso a pelo raso in Europa e in Asia sin da epoche preistoriche .è dimostrata, ma non è certa la sua discendenza diretta dal mastino tibetano, anche se la maggioranza degli esperti guarda a quest'ultimo come al progenitore comune delle due varietà a pelo lungo e raso.
Per mutazione spontanea, rispondono gli specialisti alla nostra domanda: come il molosso tibetano si è trasformato in quello mesopotamico-indiano?
Cioè, per esigenze di adattamento ambientale, nel cane a pelo lungo spostatosi verso sud nelle zone più afose dell'India, si sarebbero verificate delle modificazioni nel gene trasmettitore dei caratteri morfologici.
E questa teoria, suffragata dalla dimostrazione scientifica, volendo proprio sostenere un progenitore unico, potremmo anche accettarla.
Ma allora potrebbe essere vero anche il contrario: cioè, se ammettiamo che il molosso a pelo lungo per adattarsi ad un nuovo ambiente più caldo si è trasformato in un cane a pelo raso, pos­siamo anche ipotizzare che il molosso mesopotamico (oppure quel­lo indiano), spostandosi verso le più fredde regioni himalaiane,abbia arricchito di una calda pelliccia la propria struttura.
Dello stesso avviso è Paul Mègnin:
«Il mastino del Tibet è certamente, come disse Layard, il discendente diretto del molosso assiro. Il luogo dove vive attualmente, a clima rigido, gli ha procurato un mantello più fitto a differenza dei suoi antenati vissuti nella pianura asiatica ».
Il Buffon che pone a progenitore di tutte le razze il cane da pastore, vede questo, trasportato nei climi temperati, trasformarsi in mastino, e quest'ultimo al Nord in gran danese (alano).
Anzi, una corrente naturalistica propende per la formazione europea dei mastini.
Il Keller, invece, scrive:
« Dall'altipiano del Tibet, l'animale addomesticato si diffuse nel Nepal, nell'India e contemporaneamente in Cina. La cultura assiro-babilonese lo conobbe per tempo... etc... È presente all'epoca di Alessandro; ed è proprio dopo l'esodo di Alessandro dall'India che fa il suo ingresso in Grecia, come dono del re Poro ».
In epoca storica, prove e documenti sono naturalmente più numerosi e più chiari.
E come i più antichi fossili sinora rinvenuti del “canis famiIiaris” sono forse quelli di un molosso, così la prima testimonianza del cane nell'arte si riferisce al mastino: se prescindiamo da alcuni graffiti africani o della Valcamonica, la più antica raffigurazione canina che si conosca è quella di un gruppo di molossi in terracotta scoperti fra le rovine della città assira di Ninive.
Ben più importanti, artisticamente, delle suddette sculture a tutto tondo sono i bassorilievi, sempre del Palazzo Reale di Ninive, risalenti al VII sec. a.C., attualmente visibili al British Museum di Londra. Mai prima di allora la scultura aveva raffigurato animali con mano così felice. Una lastra in particolare colpisce la nostra attenzione: raffigura una scena di caccia; vi si vede il re Assurbanipal che, dall'alto di un destriero, caccia con l'arco; dinanzi a lui una muta di cani insegue la preda, un branco di onàgri. I molossi, perché sono indubbiamente tali, presentano muso corto e quadrato, struttura compatta con muscolatura notevole,orecchie corte e pelo raso. È una rappresentazione vivamente realistica con una vivida esecuzione dell'azione quale, nel campo della scultura animale,non fu mai superata.Un altro bassorilievo assiro, riprodotto in molti testi di cinologia, raffigura un enorme molosso condotto al guinzaglio, che so­miglia terribilmente all'attuale San Bernardo ed è, con molta pro­babilità, un esemplare di mastino del Tibet. Sumeri, Babilonesi, Ittiti, Assiri, apprezzarono e allevarono quel­lo che oggi chiamiamo il molosso mesopotamico; e soprattutto co­me cane da caccia, come risulta dalle scene raffigurate sulle mura della città di Katal-Huyuc in Asia Minore, o in una terracotta sumera del 3000 a.C. circa, con scene di caccia al cinghiale, o in altra ittita raffigurante la caccia al leone, e nei citati bassorilievi di Assurbanipal.In seguito verranno impiegati, per la loro ferocia, anche in guerra. A questo punto, ci troviamo di fronte, con tanto di prove, a due varietà di molossi, almeno in Mesopotamia. Ma se è accertata la coesistenza di questi due cani, non lo è l'interdipendenza. Discendono l'uno dall'altro o derivano da ceppi diversi? Noi, purtroppo, non possiamo far altro che segnalare il problema e sollecitarne la soluzione ai più qualificati naturalisti.Anche Ciro, re di Persia, non fu insensibile al fascino del mastino e una volta che ebbe soggiogata la Mesopotamia, portò in patria fra le prede di guerra anche i feroci cani. E in India dovevano ben esserci già, se Alessandro il Grande, reduce dalla spedizione, li portò di lì in Grecia. Ora, l'India sottostante al Tibet, ed è più probabile che il molosso fosse giunto di là, piuttosto che dalle più lontane terre mesopotamiche. In Egitto il molosso comparve al seguito degli Hyksos, venuti all'Asia Centrale, che invasero il paese sotto la XIII dinastia. Lo troviamo raffigurato in alcune scene del tesoro del farao­ne Tutankahmen.
E qui fa la sua comparsa il molosso greco o macedone, altrimenti conosciuto dagli antichi come cane d'Epiro. Alessandro Magno, che fu discepolo di Aristotele e imparò da lui ad amare gli animali, apprezzò ed allevò i mastini, che aveva portato dall'India. II Mégnin, invece, sostiene che essi “furono donati ad Alessandro da un re d'Albania per combattere i leoni e gli elefanti”. Secondo quanto informa Plinio, il condottiero sulle prime non fu soddisfatto del dono, perché un primo cane, messo di fronte ad orsi e cinghiali, rimase immobile senza assalirli. Alessandro, credendolo pavido, lo fece uccidere. II re d'Albania, saputo ciò, spedì un altro cane al Macedone, pregandolo di opporlo alle belve più degne del suo coraggio. E Alessandro che lo fece combattere contro un leone e un elefante, dovette ricredersi sulla forza .e sul coraggio del molosso a tal punto che, alla morte di questo cane, gli dedicò in memoria una città intera.
D'altro canto, il mastino in Grecia potrebbe essere stato introdotto precedentemente, da Serse verso il 480 a.C., all'epoca della seconda guerra persiana; è stato infatti accertato che questo re avesse dei molossi al suo seguito.
Quasi assente nell'arte greca l'antico molosso non è però ignorato dalla tradizione letteraria e mitologica: ne scrisse Aristotele, filosofo e naturalista, considerato il padre della zoologia.
Lo Stagirita cita, nelle sue opere, 7 diverse razze di cani, senza però descriverle dettagliatamente e chiamandole col nome delle regioni dove erano diffuse (cani di Sparta, d'Epiro, d'Egitto...). In particolare nel "De animalibus historia", al lib. IX leggiamo: « La razza dei cani d'Epiro, anch'essa da caccia non differisce in niente dalle altre, se non perché accompagna i greggi e spicca per grandezza e forza, per cui debella le fiere. Poi sono prestanti, e per forza, e per sagacità quei cani che nascono dall'una e dall'altra razza, degli epirotici e dei laconici (spartani) ».
Sempre nella stessa opera, ma al lib. III: « E infatti in Epiro sono grandi gli altri quadrupedi, ma soprattutto enormi i buoi e i cani... ».
Ad Ecate, figlia di Perseo, i Greci attribuivano il merito di avere per prima domato dei cani. Di lei Tibullo, nelle Elegie, dice:
"Sola feros Hecate canes perdomuisse" (Solo Ecate domò i feroci cani); e a lei si acrificavano cani; perciò fu conosciuta come dea canicida o canivora.
I Greci immolavano vittime canine anche a Proserpina, Mercurio, Marte e Diana. In una città della Focide, Daulide, nel tempio dedicato a Minerva, erano allevati cani che, docili con i Greci, erano particolarmente feroci con gli stranieri.
E in Sicilia, nel tempio di Vulcano, presso l'Etna, era osservata la stessa consuetudine della madre patria.
Poi ritroviamo il nostro amico in Inghilterra e a Roma. E qui il quadro diviene ancora più chiaro. Procediamo con ordine. All'epoca della conquista della Britannia, verso il 55 a.C. l'esercito di Giulio Cesare dovette affrontare oltre che gli indigeni anche i loro cani.
E i valorosi legionari di Roma respinsero e ammirarono quelle belve aggressive, che furono definite per le loro caratteristiche pugnaces Britannìae.
Conquistata l'isola i Romani riportarono in patria alcuni di quei cani. Pare che un ufficiale, detto « procurator Cynegii », avesse il compito esclusivo di soprintendere in Britannia all'allevamento dei molossi e al loro invio a Roma.
II feroce molosso inglese è sopravvissuto in madre patria fino ai nostri giorni, dopo molte traversie, giungendo ad un pelo dall'estinzione e dopo aver dato origine ad alcune sottorazze, primo fra tutti il Bulldog.
Ma l'esemplare che i soldati romani avevano trovato nelle Isole Britanniche come era giunto lì?
Taluni (Faelli) vorrebbero che ad introdurlo fossero stati gli stessi Romani; altri (Tron), più verosimilmente, sostengono che furono i Fenici, grandi navigatori, che verso il VI sec. a.C. commerciavano con gli abitanti dell'isola inglese. Fra le altre merci, essi avrebbero scambiato anche i mastini asiatici che si portavano appresso nei loro viaggi.
A Roma, dicevamo, li avrebbero introdotti gli stessi Romani, reduci dalla conquista d'Albione. Però in questa città venivano già allevati i cani d'Epiro, che sono poi i discendenti di quei molossi greco-macedoni tanto cari ad Alessandro, e chiamati pugnaces.
Un'altra ipotesi, altrettanto valida, è quella che li vorrebbe importati in Italia dagli stessi Fenici che li avevano introdotti in Inghilterra.
Del resto, è risaputo che i Fenici erano in rapporti commerciali anche con i popoli italici.
II Faelli ci fornisce un'interessante notizia che, purtroppo, non ci è dato di controllare: Alla prima età del ferro, i proto-etruschi, che abitavano l'Italia, possedevano già dei grossi molossi.
Dal canto nostro, affacciamo una nuova suggestiva ipotesi: il molosso greco potrebbe essere giunto in Italia con i coloni che diedero vita alla Magna Grecia occupando tutta l'Italia meridionale fino a Cuma, intorno all'VIII sec. a.C.; e Napoli fu, notoriamente, città greca. Questo asserto trova conforto nel fatto che proprio nel napoletano il cane si è conservato per millenni giungendo fino a noi pressoché immutato.
Qual'è allora il progenitore del cane che è sopravvissuto nelle nostre contrade?
Credo che sia pressoché impossibile rispondere con certezza, perché tutte le tesi esaminate sono verosimili.
Un dato è certo, comunque: l'antico molosso romano sia esso introdotto dai Greci, dai Fenici, dagli Etruschi o Inglesi, è sempre il discendente del meraviglioso molosso mesopotamico.
Giunto a Roma, il molosso fu opportunamente allevato ed addestrato: venne impiegato con ottimi risultati in guerra, negli spettacoli dei circhi e come cane da guardia.
Tra i giochi circensi, i ludi gladiatorii (munera) erano i più .usuali e graditi: nelle venationes i gladiatori combattevano contro bestie feroci, tigri, pantere, leoni. E spesso le belve venivano fatte combattere fra di loro: anche il feroce mastino fu adibito nelle lotte contro i tori, gli orsi, e talvolta per usi ancor più crudeli, come straziare i martiri cristiani che, ricuciti in pelli, soddisfacevano la ferocia di quello e la crudeltà dello spettatore.
La passione dei cittadini di Roma per i ludi del circo getta un'ombra di ignominia sulla gloriosa civiltà romana. Ma dovrà essere considerata come un'assuefazione al sangue, una consuetudine macabra, accettata come fatto di costume se, fra tante voci autorevoli che avrebbero potuto e dovuto levarsi, solo quella di Seneca tuonò contro.
Comunque, il molosso fu adibito anche per compiti più nobili. I Romani avrebbero condotto il loro cane anche nelle imprese militari; come nel Wurttenberg, in Germania, dove il loro molosso avrebbe dato origine a quello che è l'attuale Rottweiler. II già citato Keller sostiene che il molosso trasportato in Svizzera da colonizzatori romani abbia dato origine ad un molosso svizzero, l'attuale San Bernardo contrastando, però, con la teoria che vorrebbe quest'ultimo discendente diretto del mastino del Tibet.
Comunque, tenendo conto della larghissima diffusione che aveva in tutto il vecchio continente il tipo molossoide, anche in epoca pre-romana, l'ipotesi di una formazione europea del mastino non sembra poi tanto improbabile.
I Romani apprezzarono i cani non meno dei Greci. Ad essi affidavano la custodia dei sacri templi o di altre particolari dimore.
Gli eroi si recavano alle pubbliche assemblee accompagnati dai loro cani. Nelle abitazioni, ai lati del camino, dove erano collocate le immagini dei Lari, numi tutelari del focolare domestico, ricoprivano tali divinità con pelli di cane, perché vigilassero entrambi, cane e nume, sulla casa. Anche i Romani immolavano cani alle divinità; e nei giochi IupercaIi , ai piedi del Palatino, si facevano sacrifici a Fauno Luperco, dio pastorale: forse questo rito aveva origini sacro-magiche per salvaguardare il gregge dai lupi.
I Romani ci diedero per primi una classificazione dei diversi tipi canini, raggruppandoli secondo le attitudini o l'utilizzazione: i venatici erano le razze da caccia; i pastorales i cani da pastore e i vallatici (da villa = casa di campagna) erano i cani da guardia delle fattorie, poderi etc. Sembra, però, che non avessero approfondito le differenze sostanziali fra una razza e l'altra. Del mastino in particolare hanno fatto cenno nelle loro opere Columella, Varrone, Virgilio.
Columella nel c De re rustica » cita tre razze di cani del suo tempo: da caccia, da pastore e da guardia; e ci dà una efficace descrizione del molosso:

« II cane guardiano della casa dovrà essere nero, perché di giorno scorto dal ladro con la sua oscura figura gli incu­terà maggior timore; e quando quegli (il ladro) giungesse di notte, il cane si confonderà nel buio così da non essere scorto e potrà aggredire senza essere visto. La testa molto voluminosa si presenta come la parte più appariscente del corpo; le orecchie, cadenti, pendono in avanti; gli occhi neri o grigio chiaro sono impressionanti. II petto è largo; gli arti anteriori robusti e ì posteriori ricoperti di peli, membra corte, dita ed unghie forti... ».

Varrone ne « La vita dei campi » riferisce che due sono le razze di cani: una da caccia, l'altra da guardia; e che i cani prendono il nome dai paesi d'origine: i Laconici, gli Epirotici, i Salentini etc.
Dà degli utili consigli sull'allevamento e addestramento e parla dei collari che ancor oggi, dopo quasi duemila anni, i cani da bovaro usano: « Perché non siano vulnerati da bestie, si metton loro de' collari, ossia un cingolo intorno al collo di saldo cuoio con chiodi ribaditi, e coperti di morbida pelle ».
Nel III libro delle Georgiche, Virgilio consiglia di tenere dei mastini a guardia della proprietà:
«Non sia pe' cani l'ultimo pensiero ma insieme veloci cuccioli di Sparta pasci di pingue siero e il feroce molosso con tale guardia non dovrai temere il ladro notturno né gli assalti dei lupi né alle spalle I'Ibero ladrone indomito».
Anche altri famosi scrittori di Roma antica, come Plauto, Lucrezio, Orazio, hanno talvolta fatto cenno al mastino nelle loro opere.
Diversamente da quella greca, la tradizione iconografica di Roma antica è prodiga di raffigurazioni del molosso.
E, grazie alla cortese collaborazione delle Soprintendenze ai Musei e Pinacoteche di Napoli, Roma, Firenze e Caserta, abbiamo potuto rintracciare tutte (almeno lo speriamo) le testimonianze del mastino nell'arte, dall'animalistica di scuola ellenistico pergamena sino ai nostri giorni.
Dall'osservazione delle numerose sculture, a tutto tondo come in bassorilievo, e dai mosaici, è scaturito un elemento importantissimo che è doveroso sottolineare: il molosso romano era alquanto diverso dall'attuale. Di medesima robusta struttura, con un buon cranio, presenta però un muso meno quadrato e pelo lungo al collo e alla coda; inoltre, le orecchie sono tagliate un po' lunghe, tipo alano, e ciò conferisce un insieme di leggerezza alla testa.
Sulle prime confessiamo di essere rimasti alquanto perplessi: avevamo la sensazione di essere di fronte ad un'altra razza di cane, che aveva magari qualche affinità col mastino, senza però essere completamente tale: quasi un assurdo incrocio tra lupo e molosso.
Però un'indagine più approfondita, condotta sulla scorta di antichi repertori negli archivi dei Musei, ci rivela che le opere in causa erano conosciute sin dall'antichità come relative a molossi, se non addirittura intitolate ad essi.
Alla luce di tali inequivocabili argomentazioni, i nostri dubbi non hanno più motivo di sussistere. Tutt'al più possiamo parlare, come per il mastino del Tibet, di un fenomeno di mutazione, che avrebbe trasformato in oltre 1500 anni l'antico molossoide a pelo semilungo nell'odierno mastino (i primi esemplari simili agli attuali cominceranno ad apparire nel Rinascimento).
L'esemplare più notevole che abbiamo osservato è quello raffigurato nella scultura in marmo dei Musei Vaticani, nel cortile dél Belvedere.
In verità, le statue sono due; ma una è di fattura decisamente inferiore, e per comodità ci riferiremo soltanto alla seconda. Fu trovata nella Torre della Chiaruccia, nei pressi di Civitavecchia. Erroneamente attribuita a Mirone e successivamente a Lisippo (che fu anche ottimo scultore di cani), è più esattamente riferibile alla prima scuola pergamena.
II Keller sostiene che, per essere un tipico molosso, presenta troppo pelo al collo e alla coda; ma evidentemente questo è un giudizio affrettato e basato unicamente sul confronto con i mastini moderni (leggerezza, d'altronde, in cui eravamo incorsi anche noi).
Le numerose repliche del medesimo soggetto dimostrano la grande rinomanza del modello originale nell'antichità.
Due si trovano nel vestibolo della Galleria degli Uffizi a Firenze; in marmo pentelico, sono degli ultimi decenni del III sec. Secondo una notizia di Plinio sarebbero di scuola lisippea; in ogni caso, i soggetti vanno messi in rapporto con quelli raffigurati nell'Ara di Pergamo. Nel 1500 il Vasari li descriverà in un suo scritto.
Nell'atrio della Farnesina di Roma, più nota come Ministero degli Esteri, abbiamo rintracciato un'altra scultura, se non coeva almeno identica a quelle testé descritte, proveniente dalla collezione di Palazzo Chigi. Per fotografarla, abbiamo rischiato di provocare un conflitto di competenze; ma con un'autorizzazinne della Soprintendenza alle Antichità e una telefonata ...ministeriale, abbiamo risolto tutto.
A Napoli, nel Museo Archeologico Nazionale, è conservato quel celebre mosaico pompeiano che raffigura un cane da guardia incatenato, e recante il consiglio cave canem, nero e ringhioso com'è, il soggetto poco raccomandato sembra la rasposizione musiva della descrizione tramandataci da Columella.
Sempre proveniente da Pompei, dove fu rinvenuta nel 1895, una scultura in marmo di notevole fattura: una cucciolata di cani, la cui struttura massiccia, il cranio poderoso e il muso corto li qualifica inequivocabilmente come molossi.
,Numerosi sono i sarcofaghi tardo-romani che, con i loro bassorilievi incorrotti dal tempo e dall'uomo, ci restituiscono le sémbianze dell'antico molosso. Notevoli fra tutti, « La caccia di Meleagro » nel Museo Capitolino e, nella Galleria degli Uffizi, altri due del III sec.: una scena di caccia al cinghiale del sarcofago cosiddetto «Fedra e Ippolito» e, sempre sullo stesso, una figura di molosso tenuto al guinzaglio.
Un piccolo capolavoro nella Galleria degli animali nei Musei Vaticani: un gruppo in marmo con due molossi che assalgono un cervo. Poco distante, un'altra notevole scultura: Ercole e Cerbero. Rifacimento del II sec. d.C., età antoniniana, da un originale greco del V sec. a.C., costituisce il documento d'arte classica più interessante ai fini della nostra ricerca.
La testa del mastino raffigurato è di una perfezione stilistica unica; presenta un parallelismo dei piani cranio-facciali, un rapporto di volumi e una quadratura del muso, di cui soltanto una buona fotografia potrebbe eguagliare l'efficacia rappresentativa.
E ci chiediamo, ammirati, come l'antico artista abbia potuto cogliere così felicemente, fermandoli nella dura materia, dei caratteri etnici che ancora oggi dopo duemila anni determinano la tipicità del moderno molosso.
A Piazza Armerina, località della Sicilia ricca di antichità romane, fra i numerosi stupendi mosaici se ne può ammirare uno, del III sec. d.C. che raffigura una scena di caccia al cinghiale. La fiera ha atterrato un cacciatore, ma un altro armato di lancia, la blocca con l'aiuto di un robusto cane: è quest'ultimo chia­ramente un molosso fulvo, di cui le tessere policrome efficacemente rendono i caratteri.
Onorevolmente inseritosi nel mondo romano, il valoroso pugnax entrerà nell'ombra nel periodo barbarico e dell'alto Medioevo, per poi tornare alla ribalta alcuni secoli più tardi.
Pure, la continuità della razza era assicurata, se il tipo si è conservato quasi intatto per secoli. Dove allora ha continuato a vivere il nostro? Finito il fulgido periodo romano, delle battaglie e dei ludi circensi, il molosso ingombrante e di cruenta fama era considerato un cane scomodo.
Fu relegato nelle campagne, dove le sue insuperate doti di guardiano gli garantirono una continuità nei secoli.
Ma non fu sempre allevato in purezza; e immissioni di sangue molossoide è stata accertata in razze da pastore, da montagna e da pianura dell'Italia centro-meridionale.
Un'analisi approfondita sull'argomento l'ha fatta Paolo Breber:
« Come in tutti i veri cani da montagna, nell'abruzzese scorre sangue di mastino; i pecorai stessi sono abbastanza coscienti dell'influenza del mastino sul loro cane, considerandolo un fatto perfettamente naturale ed antichissimo... Se nel tipo abruzzese l'influenza molossoide è minima e particolarmente ben dosata e stabilizzata, molti pecorai hanno cani che per il loro aspetto intermedio stanno chiaramente a metà fra le due razze. Tali cani pastori molossoidi si riconoscono per la testa pesante e a scatola, la pezzatura scura del manto, la taglia grande, e le forme generali reminiscenti il mastino.
Pare che in passato questi bellissimi cani pezzati fossero molto comuni nella campagna di Roma, come si può costatare dai quadri di Rosa da Tivoli (1657-1706)...
Un'altra prova assai suggestiva sullo stretto rapporto fra le due razze italiane in discussione, e che rivela un lato inedito su di esse, la troviamo su alcune maioliche di Castelli (L'Aquila) del XVII secolo, dove si ammirano i due cani impiegati insieme nella pericolosa caccia all'orso e al cin­ghiale nelle selve abruzzesi... La situazione in cui il primitivo cane lupoide dei pastori è stato incrociato col masti­no è uno schema canino classico che si ripete in molte zone dell'Europa e dell'Asia ».
I cani da pastore che, da noi in Italia, sono stati oggetto di questi incroci sono quelli d'Abruzzo, del Lazio e zone limitrofe. Nel pastore di Calabria, invece, pare che non vi sia sangue molossoide, presentandosi questa varietà più leggera e con muso allungato.
Personalmente ho visto dei cani da pastore della Lucania, semi-selvatici e randagi, discesi dai monti giù nelle pianure in gincerca di cibo, con caratteri tipici molossoidi e manto mogano o rossiccio.               
Verso la metà del XV secolo, Napoli, città fra le più travagliate di ogni tempo, fu oggetto delle mire ambiziose di Alfonso d'Aragona. E, dopo un durissimo assedio, che si concluse con la sconfitta degli Angioini, la capitale divenne preda dei Catalani.
La vittoria di Alfonso venne magnificamente celebrata, nel 1454, nell'Arco di Trionfo del Castel Nuovo (Maschio Angioino). Nel rilievo del sottarco, noto come Alfonso e la sua corte, ai piedi del sovrano è raffigurato un superbo molosso, dotato di museruola e di un fastoso collare finemente decorato. E che il mastino fosse diffuso nella Napoli del '400 lo conferma un monumento funerario nella chiesa di San Lorenzo Maggiore, creato nel 1421 da Antonio Baboccio, abate di Piperno, considerato il rinnovatore dell'ambiente scultoreo di Napoli. Ai piedi del Sepolcro di Ludovico Aldornoresco, alto dignitario di re Ladislao di Durazzo, si ammirano due mastini di non enorme taglia, ma dalla tipica e poderosa testa.
Le cronache dell'epoca ci parlano della passione del re per la caccia e per le famose battute nella riserva degli Astroni (il vulcano spento nella zona flegrea), nelle quali venivano usati numerosi mastini. E proprio nei Campi Flegrei, in quel periodo, a cura della Corte Aragonese erano sorti degli allevamenti canini, le cosiddette "Reali Canetterie".
Alla morte di Alfonso, sul trono di Napoli gli successe Ferdinando, detto Ferrante, suo figlio illegittimo. Questi, al suo ingresso in Napoli, si era portato appresso degli esemplari di mastino spagnolo, il famigerato perro de presa.
Questo molosso di trista fama si incrociò con i molossi di origine romana che erano sopravvissuti nelle campagne del napoletano.
E questa unione recò nuova linfa vitale al sangue millenario del nostro cane.
Ancora oggi a Napoli il mastino viene chiamato, in dialetto, cane 'e presa, ricordandoci, almeno onomasticamente, il suo antenato.
C'è un quadro al Pio Monte della Misericordia (edificio seicentesco che custodisce numerosi capolavori della pittura del XVII e XVIII secolo) che colpisce la nostra attenzione. È il.Ritratto del Principe Leonardo di Tocco di G.S. Maja, della fine del '600; vi è raffigurato un cavaliere in sella ad un superbo cavallo bianco; in basso, sulla destra si scorge un mastino con una bella testa quadrata. È di colore fulvo, ma ha maschera scura, il che ci fa supporre che si tratti di un perno de presa. Di recente, nei depositi del Museo di Capodimonte, è stato riscoperto un dipinto di B. C. Ruthardt (1630-1703) dal titolo Caccia all'orso. Nella splendida tela di notevoli dimensioni, sono raffigurati anche tre molossi: due pezzati bianconero, uno fulvo-tigrato. I cani, che sfoggiano dei fastosi collari adorni di borchie e di chiodi, presentano una struttura poderosa ed un muso alquanto allungato. Numerosissimi sono i mastini nell'iconografia napoletana del '7-800 e questo ci dà la misura della diffusione che aveva raggiunto il nostro cane nei secoli scorsi.
Nella villa "La Floridiana", fatta costruire dal re Ferdinando I per la sua amica duchessa di Floridia, si può ammirare una squisita porcellana di Strasburgo della seconda metà del '700 riproducente un molosso.
Il presepe, questa bella espressione di arte e folklore, con le sue statuine in terracotta costituisce una preziosa fonte per le nostre conoscenze.
Nel secolo XVIII a Napoli ebbe una diffusione straordinaria, tanto da essere definito "una pazzia collettiva della Napoli settecentesca". Il rilancio di questa usanza è attribuito ai reali di Casa Borbone. Ha avuto degli esecutori magistrali, spesso scultori e pittori, che talvolta hanno creato dei capolavori: Sammartino, Vaccaio, per fare qualche nome, e fra gli animalisti Vassallo, Di Nardi, Gallo, Schettino. Prescindendo dalle riproduzioni di tipi umani, che ancora sbalordiscono per il loro realismo espressivo, il nostro interesse si appunta sulle figurine di animali, in particolare su quelle canine. Nel museo di S. Martino, al Vomero, si possono vedere, sia nel Presepe che nelle vetrinette, numerosi esemplari, di colore fulvo, bassi e tarchiati, con cranio notevole e maschera nera.
Altrettanto dicasi per il presepe che annualmente viene allestito nel Palazzo Reale di Napoli.
Un bellissimo esemplare è visibile nel presepe della Chiesa di S. Chiara. Anche questo soggetto, che può essere scelto come prototipo dei mastini settecenteschi, è chiaro (fulvo) e pare sia opera del Sammartino. Uno degli esemplari più notevoli si trova nel Presepe della Reggia di Caserta. È di struttura robustissima, con una testa stupenda ed orecchie integre, pendenti; il mantello è a pezzature mogano.
E se scendiamo nel meraviglioso Parco sottostante e giungiamo fin sotto la Fontana di Diana e Atteone, tra gli altri molossi di pietra, ne scorgiamo uno che sembra la copia ingigantita dì quello che abbiamo ammirato poc'anzi nelle stanze regali. Si distingue fra tutti, oltre che per le orecchie integre, per il corpo possente e quel fantastico cranio.
Il pittore tedesco J.II.W.T. Tischbeìn, amico di Goethe, dimorò a lungo a Napoli, dove divenne direttore dell'Accademia delle Belle Arti. Nella Reggia di Caserta sono conservati due suoi dipinti dal titolo Il cane di Francesco I, datati agli inizi dell'800. Raffigurano (in piedi e seduto un gigantesco mastino, con orecchie e coda integre, dall'enorme cranio globoso, con manto a pezzature brune. Un insieme che ricorda in modo notevole la statuina del presepe dì cui sopra. E non è improbabile che ci troviamo dì fronte data la ricorrenza delle raffigurazioni, ad un soggetto famoso per la sua prestanza, forse il beniamino del sovrano borbonico.
I Borbone, questi amati sovrani che governarono Napoli e l'Italia meridionale, furono appassionatissimi di caccia. Ed è noto che alcune delle loro più belle dimore sorsero inizialmente coane casini o padiglioni da caccia, prima di essere ampliati così la Reggia di Capodimonte o la Fattoria di Persano, dove Carlo III razza di cavalli, ancor oggi molto incrociando fattrici locali con stalloni orientali.
In quest'ultima, un delizioso "rifugio" tra i boschi della pianura pestana (alla sua progettazione mise mano anche Luigi Vanvitelli), abbiamo rintracciato una statua in marmo attribuita al Canova. Situata sulla sommità dello scalone principale, a guardia delle stanze figura una femmina di mastino con un buon cranio, ma un po' debole nel muso.
Numerosissime furono le riserve di caccia: Cardìto, gli Astroni, Procida, Venafro, tanto per fare qualche nome. E numerose erano – come informa Lucia Migliaccio nel suo saggio nel Real Sito di Caserta - le "reali canetterie" dislocate nei vari casali del casertano, in cui venivano allevati anche cani corsi, mastini e cani da presa austriaci.
Ma per nostra fortuna, i Borbone amavano interessarsi anche di arte, circondandosi di pittori, scultori, uomini di cultura.
Carlo III aveva ereditato dalla madre Elisabetta Farnese gli immensi tesori d'arte di Casa Farnese, che andarono ad abbellire il Palazzo di Capodimonte; e nel Parco di questo, per volere del Re, fu impiantata nel 1743 quella famosa Fabbrica di Porcellane che un così buon ricordo ha lasciato di sé. Sempre Carlo III, questo straordinario mecenate d'artisti, fece sorgere in Napoli la Real Fabbrica degli Arazzi cui prestarono lo loro preziosa opera artisti come Giuseppe Bonito e Pietro Duranti, lasciandoci alcuni pezzi di elevata fattura.
E lo stesso sovrano aveva dato impulso, spia dalla consorte Maria Amalia di Sassonia, al scavo di Ercolano e Pompei, che costituisce primo saggio di archeologia ufficiale in Italia.
Uno degli artisti gratificati della regale benevolenza fu il tedesco J.P. Hackert, chiamato nel 1782 da Ferdinando IV a Napoli dove venne nominato pittore di Corte. Ivi lo conobbe Goethe che studiò paesaggio sotto la sua guida.
Ottimo paesaggista, ci ha lasciato, tra l'altro alcuni dipinti con scene di caccia. I più sono a Caserta, ma quello che ci interessa particolarmente è conservato alla Pinacoteca di Capodimonte. Intitolato Ferdinando I caccia il cinghiale nella tenuta di Cassano, è un enorme (circa 4 metri lungo), suggestivo quadro in cui si possono contare ben 44 esemplari di mastino.
Già lo avevamo notato in mosaici, dipinti e in tutte le statuine dei Presepi; ma qui, dato il numero notevole dei soggetti riprodotti, non può trattarsi di un caso o di una preferenza cromatica dell'artista: il mastino napoletano almeno sino al secolo scorso, era essenzialmente fulvo pochi esemplari si presentavano neri o tigrati.
E questo è un dato importantissimo, poiché oggi il mastino di Napoli è sostanzialmente grigio, talvolta nero raramente chiaro. In altri termini, il manto grigio è oggi dominante rispetto al nero e al fulvo, recessivi.
A questo proposito, avevamo raccolto le confidenze di un vecchio appassionato: a volergli dar credito, il "nuovo colore" del mastino è saltato fuori solo nei primi decenni di questo secolo e non sarebbe estraneo alla faccenda un alano dal magnifico mantello color cenere.
Ma sinora inediti dati iconografici sono sopraggiunti a chiarire la situazione: il dott. Max Vajro presso la libreria Casella di Napoli ha rintracciato una incisione ottocentesca a colori, in cui è raffigurato un mastino inequivocabilmente grigio; e ben quattro esemplari di questo colore si possono osservare in un dipinto attribuito a J.P. Hackert (Caccia al cinghiale, seconda metà del '700), conservato nella Reggia di Caserta. E questo sembrerebbe chiudere la discussione: nei secoli scorsi già esistevano (magari rarissimi) esemplari di colore grigio. Anche nell'800 il mastino fu raffigurato da pittori e scultori, specialmente da quelli di tendenze naturalistiche. A Roma, agli inizi del secolo scorso, operò Bartolomeo Pivelli, incisore, pittore e scultore di una certa fama. E nelle figurine in terracotta, nelle incisioni e negli acquerelli con vedute della campagna romana, il nostro amò riprodurre il discendente del molosso romano che era sopravvissuto in quella zona e nel napoletano.
A Napoli, più o meno contemporaneamente, operavano i Palizzi, stirpe di pittori di origine abruzzese, ma stabilitisi nella capitale partenopea. Dei due più famosi, Filippo e Nicola, nella Pinacoteca di Capodimonte e nella Galleria d'Arte Moderna di Napoli, sono conservati alcuni dipinti di un caldo naturalismo: scene campestri, angoli di fattorie, e fra i tanti animali stupendamente resi, il rustico molosso.
Il termine mastino, però, nonostante la razza fosse pressoché integra, non imbastardita, ingenerava ancora confusione, non essendo riferito esclusivamente al nostro molosso.
In una stampa del '700, di proprietà del comm. V. Testa, è raffigurato un cane qualificato nella didascalia come mastino: è, invece, un grosso carne da pastore, con il muso allungato, pezzato bianconero. Ancora nel 1834, il Tramater nel suo Vocabolario etimologico pubblicato in Napoli, alla voce mastino, riferiva: "Specie di cane che tengono i pecoraia guardia del loro bestiame". Bisognerà attendere le classificazioni scientifiche dei moderni naturalisti, per un'esatta collocazione del nostro cane.
Oltre che il diverso colore, notiamo nei mastini del '700 e '800 una minore possanza strutturale e teste meno importanti delle odierne, con musi più lunghi.
Ma un altro dato più interessante scaturisce dalla nostra piccola indagine: la coesistenza, accanto ad un tipo di mastino più simile all'attuale, di un altro tipo più basso e tarchiato, con un bel cranio quadrato e maschera scura.
È, quest'ultima varietà, il perro de presa vero e proprio, puro come era stato portato dalla Spagna, o si tratta del frutto di un incrocio fra questi e il mastino di Napoli?
Non ci è dato saperlo, anche perché soggetti del genere non sono sopravvissuti fino ai nostri giorni; e la varietà più alta, e direi più massiccia, con manto unicolore (senza maschera, al viso) è quella sopravvissuta e costituisce l'ascendente dell'attuale mastino di casa nostra. Il quale, tra la fine del secolo scorso e gli inizi dell'attuale era ormai diffuso in tutto il napoletano e conosciuto per le sue doti di forza e di ferocia.
Le quali ultime furono oltremodo apprezzate nell'ambiente della guapperia; e così avvenne elle i guappi o altra gente di carattere elessero il mastino a loro amico e difensore.
Nella contrada i Mazzoni, nella vasta piana del Volturno ad Ovest di Napoli, fu spesso rappresentato un impressionante spettacolo: la lotta fra mastini e bufali. E a Giugliano, grosso centro agricolo non lungi da Aversa, esiste ancora un cortile che fu teatro di cruente lotte fra mastini.
Gli esemplari più feroci erano oggetto di cure particolari ed avevano un loro mercato con quotazioni altissime.
Ma in fatto di ferocia, i proprietari non erano da meno dei loro cani: il mastino soccombente, anche se leggermente ferito, e quindi curabile, dopo l'incontro veniva soppresso senza pietà, perché giudicato indegno della fama di lottatore che sino a quel momento aveva usurpato.
Qualche vecchio del posto ricorda gli scontri più famosi e i Campioni che sono entrati nella leggenda. E nella voce di chi me ne parla, c'è tutto il rimpianto che tale consuetudine si sia estinta e con essa l'età eroica del molosso….

 

 

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