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Viaggio intorno al Molosso

di Piero Scanziani

Viaggio cominciato da bambini, quattro anni. Bambino Sbagliato: già i genitori divorziavano. Cucciolo sbagliato: non era un molosso, non era niente, un bastarduccio, quelli che restano piccini (dicevano), basta dargli un quotidiano sorso d'acquavite (dicevano). Forse glielo diedero, certo s'ammalò. Stava acciambellato in un corridoio, cimurro (dicevano), un cataplasma di pece sul fianco, odore di catrame da per tutto, odore nero, corridoio nero, nero anche il cagnino, puzzava di bitume, lagno flebile, tremito febbroso, moriva.

Morto, scavarono un buco e ve lo misero, presso il muro d'una sartoria, in Svizzera: era mezzogiorno, le stiratrici uscivano, mi guardavano piangere, ridevano.

Nemmeno il secondo era un molosso, dieci anni dopo. Trovatello raccolto per la strada dalla mamma (Milano, in guerra, soldi rari, fame frequente). Trovatello di pelo giallo, di gambe bassotto, di testa volpino, coda a bandiera. Al mattino esigeva gli s'aprisse, rotolava per le scale, usciva nel gran cortile fra l'incombere degli enormi casamenti, finestre finestre, talvolta donne vi s'affacciavano a lanciare ingiurie, lunghe, motivate, recitate meridionalmente a gesti e grida, forse rivalità o isterie o climateri.

Il trovatello tornava puntuale al pranzo. Se tardava, mi spedivano a cercarlo sul viale, ove stava perdendo tempo dietro qualche femmina. Uscivo acceso di speranza grazie a una ragazzina di nome Carla, non bella, ma si lasciava baciare sulle scale. Si lasciava baciare le labbra, tranquilla, mentre temevo d'essere scoperto e il cuore mi tumultuava. Non l'amavo (ancora non mi riesce d'amare le ragazzine), ma mi bastava il bacio (a cui Carla era come assente) per sentir germinare in quel che più mi mancava: la sicurezza. Correvo via trionfante a cercare il cane e tornavamo a casa, entrambi esultanti. La mamma ci guardava, insospettita. Una sera il cane giallo non tornò. Corsi a cercarlo per il viale, invano. Domandammo da per tutto, per giorni e giorni: non se ne seppe nulla, mai. Sparì anche Carla. Quattordici anni e t'accorgi che gli altri di colpo appaiono e ti sono accanto, li guardi, gli ascolti, perfino li tocchi, di colpo spariscono né sai dove, né dove, né perché.

Il terzo era davvero un molosso. Allora molosso significava per me un cane raro, di muso corto, anzi non muso, piuttosto faccia. Cani visti solo nelle illustrazioni dei libri, nelle fotografie dei giornali. "Non molossi: bulldog", mi correggeva un compagno esperto. Insistevo testardo: molossi. Il nome m'incantava.

Incontrai il mio primo molosso di sera, forse tre anni dopo. Ormai riuscivo a innamorarmi delle ragazzine: si chiamava Emma era la ragione del mio respiro. Camminavo solo nel crepuscolo per le strade della grande città. La guerra era finita, cominciava la crisi. Adolescente magro, innamorato, malato, forse l'adolescenza è una malattia. Certo l'innamorarsi è una malattia. Sei sensibile alla vita che trascorre, trascinante, la vita che che t'affascina ma è tutta per gli altri, niente per te, la sera violetta si anneriva. Dalla porta d'un grande albergo uscì improvviso un fiotto di luce bianca, stagliata sul marciapiede. Luce opulenta. Fermo contro il muso fissavo la porta girevole aperta ai paradisi: paggi s'inchinavano a sovrani. Uscì una giovane regina, bella, altera e grave, diretta a un'automobile d'argento. L'accompagnava un bulldog (molosso, per me), bianco e fulvo, muscoli, impeto, sì, finalmente, era lui. Si fermò cordiale a guardarmi, mosse il codino. La bella regina lo chiamò passando grave e altera.

Emma portò un cucciolo nel nostro abbaino, d'agosto, sotto il tetto cocente. Era un bastardo, ma rifiutò la nostra povertà, le nostre patate bollite, il baccalà salato, rifiutò l'arsura canicolare dell'abbaino. infilò le scale e scelse la libertà. Lo rivedemmo, lucido e panciuto, a rosicchiare ossa succulente fra i banchi d'un mercatino che l'aveva adottato. Anch'egli ci vide e scappò. Non ci riuscì di dimenticarlo, a causa delle pulci che ci aveva lasciato, moltitudine beata nella calura sotto il tetto, beata a suggerci il sangue adolescente, profittando dei lunghi nostri languori.

Anni dopo vi fu un randagio che certo avrebbe desiderato essere molosso. Mi scelse in una via di Roma ov'ero capitato cercando lavoro, allora introvabile: la guerra era finita, cominciava la crisi. Grosso cane bianco da gregge, avrebbe voluto essere molosso per piacermi. Mi vide dall'altro marciapiede e mi fissò. Traversò la strada scodinzolando, come gli fossi amico. Doveva aver perduto pastore e pecore. Sonava il mezzogiorno e m'avviai a una panchina per mangiarmi il panino. Non mi riuscì, lo mangiò lui. Mi si era seduto dinanzi, composto, l'occhio eloquente. Era alto, grosso, il lungo pelo nascondeva le magrezze e aumentava il tanfo, così forte che l'avresti riconosciuto al buio. Divorò una pagnotta che gli comprai, poi una seconda, pozzo di san Patrizio. Mangiava tutto e non mi lasciava. Più che pastore si rivelò cane poliziotto: mi sorvegliava a vista, senza staccarsi dal fianco. Sperai di sfuggirgli verso sera, poi verso notte. Tentai di chiuderlo fuori dal portone: vi s'infilò, salì lieto le scale, entrò in casa, si distese ai piedi della branda, mentre restavo silenzioso, senza osar accendere la luce, paventando il risveglio della padrona, facile alla collera e alla cacciata. In tutta la città non v'era un'altra branda più a buon mercato. All'alba me ne uscii, spalancata la finestra per disperdere il tanfo pastorale. Mi seguiva allegro, sorrideva con la coda. Me ne liberai a fatica, infilandomi in edifici dalle doppie entrate. M'era impossibile adottare un simile mangiatutto. Poi, se mai mi fosse avvenuto d'avere un cane, sarebbe stato molosso. Riuscì a lasciarlo dietro un cancello e correr via. Mi guardò per l'ultima volta, da prima incredulo, poi sorpreso, inquieto, disperato, di nuovo derelitto, abbandonato agli accalappiatori.

Dagli accalappiatori si salvò una cagna, era una bulldog. Avevo ormai imparato a distinguere bulldog da molosso, razza (dicevano) scomparsa nei secoli. Era una bulldog d'un anno, chiamata Lady, nata in casa d'un senatore che aveva importato una coppia. Avuti i cuccioli, ne regalò un paio, lasciando Lady alla servitù. Finché un giorno il senatore s'adirò per chissà quale ragione e ordinò ci si liberasse della bestiola. Fu portata al canile municipale. Evitò la camera a gas grazie a un traffichino che fiutò l'affare, pagò il riscatto, mi propose l'acquisto, chiese un prezzo ingordo, l'ottenne. Ne capivo poco di cani a quel tempo, era un tempo dominato dalla luna: luna di miele. Sposo fresco, Lady (bulldog francese) fu la prima a entrarmi in casa, la prima d'una schiera canina che non mi riesce più di numerare.

Nella schiera v'è Esta, una boxer venuta di Germania: Esta von der Blutenau. La razza era allora tanto rara che per strada la gente si radunava intorno a Esta, domandandomi se fosse una scimmia.

Per cinque o sei anni il viaggio intorno al molosso passò fra i bulldog francesi. Me ne nacquero alcuni assai belli, ma sempre fui costretto a venderli, perfino il mio primo campione, Conte di Villanova. Conte era con me in treno la notte in cui morivo dissanguato per emorragia interna. Mi guardava come lo sapesse, forse lo sapeva, mi leccava la mano gelida, era l'unica presenza in quella solitudine in cui me ne morivo a stilla a stilla. Guarito, fui costretto a venderlo: la crisi era finita, cominciava la guerra.

Pure continuò il viaggio verso il molosso: traversai i luoghi abitati dal mastiff inglese, dal dogue bordolese, dal perro de presa spagnolo. Ma non erano il molosso antico, quello dei romani, quello d'Alessandro il Macedone, quello degli assiri, quello del Tibet. Il molosso (dicevano) era scomparso nei secoli. Se così era, avrei voluto almeno un bulldog, il vero, il britannico, con la faccia di Winston Churchill che stava vincendo la guerra. Ma come in quegli anni, vivendo a Berna, trovavi un bulldog inglese?

Un giorno, ai margini della città, capitai in un'osteria. Seduto davanti al boccale di birra, fui circondato da quattro o cinque boxer di due mesi. Mi mordevano i calzoni, salvo uno, sfrontato, che mi saltò in grembo. Ci guardammo: era Arno. Arno von Turnellen, boxer bernese, mutò assai la mia vita. M'indusse a studiare l'addestramento, a scriverne libri, ad aprire un canile allo zoo di Roma (vi era finito cercando lavoro), a dirigere una rivista che attrasse amici, accese nemici. Arno mi portò a frequentare mostre canine e così mi trovai a Napoli il 12 ottobre 1946. Debbo a lui l'incontro col molosso verace.

Si Chiamava Guaglione. V'erano otto cani da presa in quella prima mostra partenopea. Alcuni grigi come Bufariello e Zingarella; alcuni neri come Leone e Catarì; Moschella era serpata; solo Guaglione blu, possente e redivivo. Lo riconobbi all'istante: era uno dei cento che Paolo Emilio il Macedonico aveva portato in Roma al suo trionfo. Era il gran cane d'Epiro, figlio degli assiri, nipote dei tibetani, era il Molossus.

Guaglione, dall'alto dei suoi secoli, mi fissava imperturbabile, occhi non ostili e non gentili, sguardo che non dà e non chiede: rimira. Rimirava Arno, tenuto al mio guinzaglio. Arretrai ricordando D'Annunzio: molosso pronto ad azzannar senza latrato.

I giudici e i competenti venuti a Napoli dal nord beffeggiavano gli otto cani da presa. Li consideravano senza razza, uno alto e l'altro basso (dicevano), questo di tipo alano e quello bordolese, non uniformi neppure nel colore, disparati, simili solo nel linfatismo, nel rachitismo, nella bastardìa, cani incatenati al pagliaio e inetti perfino al camminare, bestiacce (dicevano) che solo l'inventiva napoletana poteva riunire sotto l'etichetta di mastini.

Invano mostravo loro Guaglione, parlavo del molosso antico. Ridacchiavano di me e della mia enfasi. Il più autorevole decretò: "Manca la razza e addirittura manca il cane". La frase parve vietare ogni rinascita. Tuttavia avevo imparato che la vita è imprevedibile e fervida, fuori dalle nostre logiche. Ride dei no Umani, ride dei sì. La vita talvolta si china a raccogliere proprio chi pareva reietto e ne fa un sovrano. Guaglione divenne patriarca.

Molte vicende s'accavallarono, come sempre avviene nella nostra esistenza bifronte: sorrisi e lacrime, lacrime e sorrisi. Commedia e dramma, tragedia e farsa, pure l'esistenza ha nel suo fondo un incanto che spinge tutte le creature sull'immensa scena e rende ognuna interprete della propria parte. Nessuno meglio d'un mastino recita la parte del mastino. Invece allora recitavo male la parte dei uomo, ambivo a cambiare la mia svigorita maschera di giornalista con quella lucente dello scrittore. Troppo pochi se n'accorgevano e qualche applauso mi veniva soltanto dalle mie declamazioni di canettiere. era dunque quella la mia parte e il mio destino? Ambivo almeno al grado di Gran Cane, che in Oriente sta per imperatore. Imperatore dei molossi così come Laverack e Gordon erano divenuto imperatori dei setter, Bouiet e Korthal dei griffoni, von Stephanitz dei pastori, il granduca Nicola dei borzoi, il guardiacaccia Graham dei pointer e il guardiacarcere Dobermann dei dobermann.

E' tuttavia difficile dar vita a una razza canina assai difficile. 'aiutarono alcune femmine: prima fra tutte Spes di Villanova figlia e sposa di Guaglione, poi la nera Aria di Villanova, figlia del nobile senatore Siento. Passarono molossi neonati fra le mie mani, passarono campioni, il più glorioso forse Ursus di Villanova e suo fratello Uno di Villanova e la bella Calliope di Villanova. Indimenticabili Caesar di Villanova, nero, Brutus di Villanova, blu, Brutus nato nella mia bella casa di Roma e lì visse e morì.

Poi il mio copione cambiò. L'incontro con Guaglione restava indietro nel tempo, cominciarono gli anni sessanta. M'ero messo a recitare solo la parte dello scrittore, tanto da dimenticare le altre, anche quella del canettiere. Nuova gente si andava occupando dei mastini e continuava l'opera. Il molosso m'era rimasto in cuore, primo amore, grande amore, ultimo. perciò non mi riusciva più di vivere con un mastino, troppo e troppo a lungo amato. Il canile di Villanova si chiuse. In Inghilterra comprai un bulldog, Winnie: persona silenziosa, riservata, senza intemperanze, perfino la sua coda aveva pochi gesti. Visse dieci anni, si metteva ai miei piedi mentre scrivevo libri, alzava di tanto in tanto la testa a fissarmi negli occhi, vero cane del pensatore. Winnie morì, i cani muoiono presto, forse è bene, non sopporterebbero il cambio di tanti padroni, come avviene ai cavalli, dalla vita quattro volte più lunga.

Poi conobbi i cani paria in India, i levrieri in Persia, i tosa in Giappone, i cincin a Hong Kong, i boston a New York. Lo scrivere sembra obbligarti mesi e mesi fermo in una stanza e poi d'improvviso induce gli editori a mandarti a girare il mondo. Lo scrivere s'era fermato negli anni settanta in un villaggio svizzero di centocinquanta anime sulle falde d'un monte che si chiamava Generoso e lo è. Ho scelto un cane di mezza montagna, confederato d'Appenzello, ho scelto un bovaro di nome Mani e con lui sono andato a Napoli quando m'han chiamato a giudicare i mastini, l'estate scorsa. Giudice di settanta mastini, in Napoli, anno 1974. Li guardavo davanti a me: mi chiedevano di giudicarli. Trent'anni prima, 12 ottobre 1946, avevo veduto Guaglione in questa stessa Napoli e avevo sognato la razza. Eccoli lì, ormai esisteva, erano i settanta migliori e dovevo giudicarli, ma troppo commosso. Mi dicevano che forse il mio miglio copione era stato quello di canettiere.

Certo tutto passa, certo tutto finisce, anche le razze dei cani, eppoi i cani hanno vita breve, anche gli uomini.

Eppure può accadere a uno come me di vedersi intorno settanta cani e di sentire d'averli inventati.

Sagno, 12 ottobre 1974

da "Il Cane Utile", di Piero Scanziani, Elvetica Edizioni

 

 

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